La foresta tropicale, calda e gocciolante, fagocita il sentiero. Vertiginose pareti di roccia ricoperte di giungla, valli profonde, lagune incantate e montagne con vette che si perdono nelle nebbie Si percepisce un’atmosfera strana, surreale, creata dal connubio di uomo e natura. Quella di Tana Toraja, la “terra dei toraja”, sull’isola indonesiana di Sulawesi, è una natura mozzafiato. Ma non è solo natura. L’uomo ha modificato questi luoghi. Ha alterato il senso di fatalità della vita e della morte. Ha modificato le atmosfere. Ha trasformato un selvaggio luogo geografico in un luogo metafisico.
Capita di camminare nel verde e di sentirsi addosso, netto, quasi palpabile, lo sguardo di qualcuno. Ci si gira improvvisamente con la sensazione di essere seguiti, osservati. Riprendendo fiato, lo sguardo segue le sagome della roccia che si intrecciano con liane e felci gigantesche. Un brivido scorre lungo la schiena scoprendo decine di occhi che scrutano la valle. Sono gli antenati toraja, i tau-tau, statue di legno dalle sembianze reali. Guardano giù, con occhi allucinati, guardiani perpetui del loro regno.
Se ne stanno allineati su esili balconate, ritagliate dentro pareti di roccia a strapiombo. Presenze inquietanti che ricordano all’uomo il suo perpetuo legame con il mondo soprannaturale della morte. I tau-tau raffigurano gli antenati defunti, coloro che ormai appartengono ai puya, i campi dei beati, che si trovano al di là dell’estremo orizzonte meridionale
I toraja che abitano questa regione, con le loro tradizioni ancestrali, le cerimonie legate alla nascita e alla morte, il profondo legame con la terra, il costante dialogo con gli antenati, le architetture stravaganti delle abitazioni e lo stile di vita, si distinguono radicalmente dagli abitanti del resto dell’isola..
Tana Toraja è un mondo a parte. Un po’ reale, un po’ magico.
Un tempo chiamata Celebes, Sulawesi è una delle isole più belle e selvagge dell’arcipelago indonesiano. Di origine vulcanica, rappresenta il punto di congiunzione dei sistemi orografici delle Filippine, delle Molucche e delle isole della Sonda ed è per questo che ha un andamento radiale con quattro lunghe penisole che racchiudono gli ampi golfi di Bone, Tolo e Tomini.
La “terra dei toraja” sta proprio nel cuore dell’isola, a dieci ore di strada sconnessa dalla capitale Ujung Pandang.
A sud ci sono i territori dei bugi, abilissimi naviganti e grandi coltivatori di riso; a nord si aprono invece pianure verdissime che sfumano in grandi spiagge bianche dove ormai svettano complessi alberghieri e villaggi vacanza.
Tana Toraja è tutt’altra cosa. Qui regna ancora una natura rigogliosa e selvaggia fatta di montagne e vallate immobili da epoche immemorabili, di gole e canyon profondi. I campi coltivati e le risaie vengono strappati con grande fatica alla giungla incombente che altrimenti, senza l’intervento dell’uomo, ricoprirebbe tutto col suo manto lussureggiante.
Makale e Rantepao sono i villaggi più grandi di Tana Toraja; intorno, disseminati sui pendii delle montagne, sorgono villaggi minori, manciate di case sempre ordinatamente distribuite in fila e affacciate su un’area aperta adibita alla vita comunitaria e alle grandi cerimonie che caratterizzano la vita religiosa di questo popolo. Le abitazioni, le tongkonan, hanno una forma bizzarra che ricorda molto alcune imbarcazioni tutt’oggi in uso nell’isola: le lembang. Il tetto a sella, molto elevato, è simile a uno scafo e ci riporta alla storia leggendaria di questo popolo proveniente da qualche isola meridionale.
I toraja, cioè “gli uomini degli altipiani”, come li chiamano i vicini bugi, giunsero in realtà dal mare. Una storia di molti secoli fa, venticinque generazioni per la precisione: gli antenati Toraja lasciarono la lontana isola di Pongko, nel sud-est, a bordo delle lembang, sottili canoe ricavate da un tronco d’albero. Naufragati sulle coste di Sulawesi utilizzarono inizialmente gli scafi danneggiati delle loro imbarcazioni come tetti per le loro capanne. E così, ancora oggi, le case mantengono questa forma così originale.
Si stabilirono sugli altopiani di Sulawesi coltivando riso, cereali e in seguito caffè e chiodi di garofano. Negli ultimi decenni, ovviamente, il turismo si è aggiunto al lavoro dei missionari e la cultura e le tradizioni di questa popolazione sono gravemente minacciate dalla modernizzazione e dall’influsso di religioni esterne quali l’islam e il cristianesimo.
Piccoli e minuti, con i capelli neri e la pelle scura, con i tratti del volto un po’ mongoli e un leggero prognatismo, i toraja sono difficili da distinguere dai loro vicini bugi. Eppure la differenza storica, linguistica, sociale e politica è netta.
Oggi come in principio il mondo dei Toraja è circoscritto in un’area geografica ristretta dove le distanze sono ridotte.
Tutto ruota attorno a Rantepao, autentico campo base (dotato di ottimi alberghi) per ogni escursione nella regione.
Ad appena due chilometri c’è Londa, uno dei luoghi sacri più suggestivi: qui la presenza dei tau-tau incombe. Il silenzio e la calura rendono l’atmosfera palpabile. Il vento tra gli alberi giganteschi è la eco della loro voce. Si cammina con rispetto e circospezione nel tentativo di non infrangere qualche tabù e di rispettare questo luogo magico.
Non meno impressionanti i tau-tau di Lemo, a soli cinque chilometri da Londa. Si affacciano ai balconi con le mani tese in composto atteggiamento di supplica, così reali da sembrare viventi.
Nei villaggi di Ke’te, Palawa e Sangalla le grandi capanne di bambù sono disposte in cerchio attorno alla piazza dei sacrifici, i tetti hanno la tradizionale forma di scafo, le pareti sono decorate a motivi geometrici e, appese sopra gli ingressi svettano le immancabili teste di bufalo bianco, animale sacro per eccellenza.
Nel fitto della giungla, con un fuoristrada, si possono raggiungere i villaggi di Namasa e Rongkong che, grazie all’isolamento geografico, hanno mantenuto un carattere più genuino.
Nei villaggi toraja la vita scorre operosa, nel rispetto degli anziani e della tradizione, protetta quanto più possibile dalle influenze livellatrici dell’incalzante civiltà occidentale.
La società è rigidamente divisa in caste e solo i più “nobili” possiedono le belle case tradizionali e possono permettersi di finanziare le grandi cerimonie funebri che caratterizzano questa popolazione.
La terra è proprietà del gruppo (di solito alcune famiglie) e ogni anno viene divisa tra coloro che vogliono lavorarla. Tutto è supervisionato da un consiglio degli anziani e dei capofamiglia che discendono dagli antenati toraja sia per linea paterna che materna.
Avvicinandosi a Namasa si è finalmente consapevoli che un viaggio nella terra dei Toraja significa soprattutto entrare in contatto con una cultura animista dalle radici antichissime e misteriose
Già prima di varcare i confini dell’abitato si capta una sorta di eccitazione nell’aria. Diverse donne avvolte in vestiti sgargianti corrono di capanna in capanna preparandosi per la cerimonia funebre.
Il momento centrale di questa civiltà aliena, infatti, riguarda proprio la morte e le cerimonie che accompagnano il defunto nel suo viaggio. Sono avvenimenti grandiosi che richiedono lunghi preparativi, sacrifici di animali, imponenti manifestazioni pubbliche e riti celebrati in varie occasioni a distanza di mesi e anni. In base alla possibilità di ciascuno, la durata e la pompa dei rituali, che i parenti hanno il diritto e il dovere di compiere, determinano il grado nella gerarchia sociale.
Niente di lugubre però; qui, infatti, il passaggio nell’aldilà non è altro che l’ingresso in un mondo altrettanto reale, seppur diverso, da quello nel quale ci si muove durante la vita.
Agli occhi di un occidentale le cerimonie funebri appaiono come autentiche feste, gioiose, chiassose e scandite da musiche e danze della tradizione.
La famiglia ha l’occasione di riunire tutti gli abitanti del villaggio, di stabilire l’appartenenza al “ramo” del defunto e di riaffermare la propria posizione nella comunità. Ma oltre che un valore religioso e sociale, le cerimonie toraja hanno uno scopo propiziatorio che riflettono un’esigenza di fecondità e di prosperità, particolarmente sentita nelle società agricole arcaiche.
La piazza cerimoniale di Namasa è gremita. E’ il momento del macabro sacrificio dei bufali bianchi e dei maiali che corrono all’impazzata sanguinando e quindi “fertilizzando”.
Ogni famiglia giunge in visita anche dai villaggi vicini indossando gli abiti più belli, portando in dono cibo, bevande e perfino gioielli preziosi.
Dopo giorni, a volte anche settimane di festa sfrenata, il morto viene finalmente trasportato nel luogo sacro degli antenati e sepolto in una grotta scavata nella roccia.
Ha già varcato il confine dei puya, ma al suo posto, su quelle stesse rocce, viene issato un tau-tau. E quegli occhi fissi di marionetta, simbolo di una presenza umana, continueranno per sempre ad osservare il mondo Toraja, silenziose sentinelle di una civiltà in estinzione.